“Nessuna città”, edito da Scatole Parlanti nel 2020, è l’ultimo romanzo dello scrittore e cantautore napoletano Francesco Amoruso.
Dopo la raccolta di racconti “Mangiando il fegato di Bukowski a Posillipo” (2017) e i saggi “How I Meet Your Mother – La narrazione ai tempi delle serie Tv” (2019), Amoruso con “Nessuna città” trasporta il lettore in una Napoli futurista e distopica, avvolta da una cupola protettiva sotto la quale i pullman volano ma i lavori della linea metropolitana non sono ancora terminati.
Napoli, vera protagonista del romanzo, seppur mai nominata e con qualche aggiunta futurista, resta fedele a se stessa: eternamente dilaniata tra bene e male, tra il brutto e il bello, popolata da personaggi che arrivano o che ritornano e che lottano per r-esistere.
Abbiamo incontrato lo scrittore per farci raccontare qualcosa di più sul suo libro.

Come nasce “Nessuna città”?
“Da un’idea nata quasi dieci anni fa di raccontare una visione immobile delle cose. Un amore contorto, non sempre facile da esprimere, ma che si porta dietro tante altre storie. Dana, Gennaro, Mario, Sabrina, Liberato & co. sono tutti personaggi-persone che ho un po’ raccolto dalla fantasia, un po’ dalla vita reale”.

“Nessuna città” è un romanzo che riesce a far convivere armonicamente sentimenti contrastanti, nonostante le pagine “buie” di roghi tossici, immondizia, precariato e malavita resta un profondo atto d’amore per la città di Napoli. Questo sentimento contradditorio di amore è presente nel cuore di molti napoletani. Come se lo spiega?
“Non lo so bene, ma forse per lo stesso motivo per cui si amano certi figli che fanno di tutto per farsi del male. Veicoliamo troppo spesso l’immagine di una città-mamma.
Come se noi fossimo i figli maldestri. Secondo me, siamo noi a “fare” le città, a darle vita, siamo noi genitori di un figlio che fatica a non perdersi, perché non siamo stati capaci di farci guida.
Ovviamente è un pensiero generalizzato, motivo per cui abbiamo picchi di bellezza, meraviglia wagneriana, ma anche scomposta alla Escher, che ho cercato di riprendere. Però, ci tengo a dire, che più che pagine buie, sono semplicemente sfondi.
Noi, ancora oggi, viviamo, come se nulla fosse, in parte abituati a certe immagini che dovrebbero essere apocalittiche e invece sono corollario di quotidiani assurdi”.
Credi davvero che Napoli, nei prossimi vent’anni, possa trasformarsi in “Nessuna Città”?
“Nessuna Città è già una città possibile, come tante. Il litorale domizio, ad esempio, è uno dei più invidiati al mondo, eppure è anche quello spesso più inquinato.
Hai il mare, ma ti tuffi sotto la doccia. È assurdo pensare a situazioni speculari come Rimini, in cui tutto è concentrato sull’aspetto dell’intrattenimento e il primario, quello essenziale, il mare, è come se non ci fosse”.

Ha più volte affermato che il suo lettore deve “sudare”. Il registro stilistico del romanzo a tratti un po’ complesso, è veicolatore di un messaggio “altro”?
“Mi piacciono, in primis come autore, libri e canzoni che chiedono l’attenzione al lettore-ascoltatore. Mi devo sedere, devo stare con la matita e giocare col libro e trovare, filologicamente, le parole chiave, riferimenti, rimandi. Un testo non è solo la storia, ma il modo in cui quella storia è veicolata.
Sicuramente, in “Nessuna Città” ho lasciato numerosi indizi ed eventi e parole che si richiamano a distanze anche di 30-40 pagine. Se non ci fai caso, poi qualche pagina può sembrare difficile. Penso a Bufalino, anche a Gadda, ma anche a Cèline.
Certe parole le ho messe in certi punti, con un certo modo di piegarsi perché debba suscitare qualcosa di non diretto. Avrei potuto dirle più semplicemente, ma anche no.
È un modo di giocare col lessico, coi personaggi e con l’intreccio. Poi, ad esempio, non nomino mai il nome della città, come ho fatto in questa intervista. Una sola volta dico Partenope.
E però compare, nascosta, nel testo. C’è una metafora che in pochi hanno colto. Dana, a inizio romanzo, perde un libro. Un testo fondamentale per la sua carriera.
Mentre la storia prosegue, quasi tutti i miei personaggi hanno un libro tra le mani, quasi come se quel libro di inizio romanzo si fosse scomposto in tanti altri (come nel caso della zia di Liberato) e poi... e poi, senza svelare il finale, il lettore si trova con un libro tra le mani, il mio.
Il libro non è solo la storia, ma tutto, ogni parola, ogni analogia, ogni metafora partecipa al gioco del testo. È una cosa che mi piace trovare in un una bella storia e ho provato a fare altrettanto”.

Il romanzo è pieno di “soglie”. Quale sono quelle che si augura di varcare?
“Non lo so. Quella del divertimento. Molti libri hanno passaggi che chiedono al lettore di farsi “entrare dentro. Ecco, spero di varcare un bel po’ di queste attese-disattese che ogni lettore ha nei confronti del testo”.


Newsletter

Resta aggiornato con la nostra newsletter

Politica